Salita al Monte Beigua ed Appennino Ligure

Foto ricordo in cima al Monte Beigua
Il Campione del Mondo “de noiâtri” in cima al Monte Beigua

Quando si parte per un giro impegnativo di diverse ore, le incognite possono essere dietro l’angolo e scompaginare i piani pazientemente preparati. Un guasto meccanico. Un temporale improvviso. Oppure il vento.
Stamattina ne ho avuto ancora una volta dimostrazione. Mentre pedalo verso Varazze, punto di partenza della salita al Monte Beigua, il vento fa le bizze. Così, quando mi infilo nella tramontana che spazza la costa a Prà, per un attimo penso che non concluderò il mio giro in programma.
La parola d’ordine oggi è: salvare la gamba. Così vado di conserva, non spingo troppo e non cedo alle tentazioni di inseguire qualche ciclista che sorpassa.
Mi aspettano la salita al Monte Beigua ed il Passo del Faiallo (affrontato dal versante nord savonese). Poi deciderò se scendere a Genova, oppure affrontare ancora una salita, quella delle Capanne di Marcarolo ed i Piani di Praglia.
Mentre penso che, per una strana sorte dei ciclisti, il vento gira per soffiarti sempre in faccia, vengo smentito dal piacevole soffio che mi spinge da Voltri fino ad Arenzano.

La salita al Monte Beigua

Il Beigua è uno dei monti più alti dell’Appennino Ligure. Il suo profilo arrotondato si riconosce dalla riviera di Ponente, per le numerose antenne che ne sovrastano la cima.
D’inverno, spesso la neve lo ricopre. E’ alto solo 1.287 m, è direttamente in faccia al mare, ma è montagna vera.
Così come è salita vera quella che comincia a Varazze e che per 19 km ti porta, tra curve ripide e rettilinei sfiancanti, tra le nuvole, il cielo ed il mare.
Il sito Salite.ch la classifica come più difficile di quella di Campo Imperatore o del Passo Pordoi da Canazei.
Conosco la salita, ma non ne ho molta dimestichezza. L’ho affrontata solo un’altra volta, in passato.
Arrivare ad Alpicella, l’ultima frazione di Varazze ai piedi del monte, non è una schiocchezza.
Gli strappi al 10% si susseguono. L’asfalto non è molto in ordine. I rettilinei abbondano. Non c’è nessun cartello stradale che indichi il chilometraggio.
Anche i segnali che indicano la località di destinazione sono pochi, poco visibili e malconci. Come se qualcuno o qualcosa sconsigliasse di andarci.

Dai 400 m alla cima

La strada all'interno del Geopark del Beigua
I rettilinei all’interno del Geopark del Monte Beigua

Iniziata via Monte Beigua, la sede stradale si restringe. Prosegue così per qualche chilometro. Poi si allarga di nuovo, ma la pendenza non cambia. 8-9-10% costanti. Ancora nessun cartello indicatore. Non ricordo la lunghezza prevista , così seguo l’altimetro e regolo la pedalata. Nessun ciclista per ora. Di solito la zona è bene frequentata dai biker, che si godono i numerosi sentieri freeride (ho il rammarico di non esserci mai venuto, nel periodo in cui “furgonavo” con la bici da DH). Ma ora con la peste suina è tutto chiuso.
Raggiungo una coppia di ciclisti che si erano fermati per una sosta. Con il passo regolare li supero.
Mi alzo sui pedali solo per rilassare un po’ le spalle e il soprasella, non per rilanciare.
Ai 1.000 metri la faggeta cede il passo al bosco di pino marittimo. Scansare le mille buche è un’opera faticosa e non sempre realizzabile.
Il vento fischia tra gli alberi, ma, fortunatamente, quella che mi arriva addosso è solo una brezza leggera, anche se piuttosto fresca.
In discesa un ciclista con la bici a pedalata assistita e la maglia del Genoa: come si facciano a sommare così tanti errori in una sola persona francamente fatico a capirlo…
Sulla destra il panorama si apre. Si vede Varazze e il Santuario della Madonna della Guardia, schiacciato là in fondo.
Si comincia a respirare. E’ l’ultimo km. Una curva a sinistra ed ecco il Rifugio.

Piampaludo – Urbe

La discesa è una sofferenza continua, non certo per il paesaggio, bellissimo ed ampio sguardo sul mare, in una picchiata emozionante, ma per le condizioni del fondo stradale.
Quando poi si entra nel bosco, la situazione peggiora ulteriormente. A tratti, la strada è prossima a diventare completamente sterrata. Ci vorrebbe la gravel, per diminuire il rischio di forature. Tra buche, ghiaia e fondo ruvido, la guida è molto attenta ed inevitabilmente lenta.

La salita al Passo del Faiallo

Dopo la salita al Monte Beigua, la seconda asperità di giornata è il Passo del Faiallo.
Da questo lato, la salita rientra sicuramente nella classifica delle salite noiose, tanto quanto è esaltante il suo versante sud che sale da Genova Voltri.
Il paesaggio è privo di viste particolari, il fondo asfaltato ha, da anni, una manutenzione scarsa. L’andamento è lento, monotono: sono 12 km al 4,6% medio. Ogni tanto, qualche breve variazione di pendenza, come sulla corta serie di tornanti a Vara Inferiore e Vara Superiore: frazioni spente dell’Appennino, che le vacanze di Pasqua non riescono a rianimare.
Mulinando, arrivo in cima a 1.044 metri sopra il Mar Ligure.
Troppa gente in cima per fermarmi a mangiare il mio panino.
Pedalare in solitaria mi rende sempre meno socievole, al limite della scontrosità. Non mi sono fermato a prendere acqua al Rifugio Pratorotondo perché c’era troppo gente (tra cui troppi bikers a motore), non mi fermo neanche qui, tra grigliate e calci al pallone.
Così consumo il mio lauto banchetto seduto sull’erba, a bordo strada, la bici appoggiata ad un cespuglio, sguardo dritto al mare che domina la mente ed il cuore.

Pranzo vista mare scendendo dal Passo del Faiallo
Pranzo vista mare alla ligure: completamente gratis!

Capanne di Marcarolo e Piani di Praglia

Arrivato al Passo del Turchino, posso scegliere: scendere a Genova oppure allungare il percorso e la fatica, scendendo in Valle Stura per poi risalire ai Piani di Praglia.
La gamba regge, decido per il lungo.
La strada da Campo Ligure alle Capanne la conosco bene; ha un paio di insidie all’inizio e poi ti fa respirare. Ai meno 7,5 km, il primo strappo. Mi alzo sui pedali quando vedo 10% sul ciclocomputer. Quando mi risiedo, la pendenza è al 14,7%. Ancora uno così ed è quasi fatta. Ai meno 4, una breve discesa che stavo aspettando già da un po’.
Arrivato ai 754 metri di questa piccola frazione montana, che da il nome al parco piemontese delle Capanne di Marcarolo, giro a destra. Ancora 6 km per la fine della salita.
Mi slaccio un po’ la scarpa destra. Le nuove scarpe Van Rysel, dopo più di 6 ore ai piedi, mi stanno cuocendo un piede.
Superando l’ultima erta, che ancora naviga tra il 10% ed il 15%, mi sento ancora bene e comincio a pensare che oggi avrei macinato qualunque cosa. Non è presunzione, ma solo il risultato di una tattica di “corsa” attenta e parsimoniosa.
Non ho battuto nessun record, non ho tenuto una media da pro, ma, da amatore non agonista, riporto a casa la maglia da Campione del Mondo (“vinta” come regalo per i 50 anni, senza dover neanche faticare) con un bottino di 131 km e 2.850 metri di dislivello. Circa la metà di quello che avrebbe fatto Alaphilippe nello stesso tempo…

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